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Illustrazione di Elisa Francioli

 

Recensione a cura di Livia Apa, rivista Gli Asini, 30 novembre 2020

Da poco pubblicato per Meltemi, La resistenza continua. Il colonialismo portoghese, le lotte di liberazione e gli intellettuali italiani si propone l’ambizioso compito di rintracciare la tessitura dei complessi, ma cruciali rapporti che hanno legato l’Italia e i movimenti di liberazione delle ex-colonie africane del Portogallo. Come lo stesso autore del volume Vincenzo Russo ci ricorda nella sua introduzione, negli anni sessanta e fino all’inizio degli anni settanta è esistita in Italia una vera costellazione di comitati, movimenti, gruppi di sostegno alla lotta di liberazione di quello spazio che ormai rappresentava l’epigono dell’esperienza coloniale europea, causa, va ricordato, che vide il suo lieto fine con la Rivoluzione dei Garofani che, chiudendo l’esperienza della dittatura di Salazar, simmetricamente mise fine anche alla guerra coloniale e a ogni sogno oltremarino del Portogallo. Ma il libro non si propone una ricostruzione storica nel senso classico del termine, bensì cerca di capire, ricorrendo alla storia culturale, come la pressione di quella costellazione di comitati e gruppi abbia aiutato con la sua azione, a creare le condizioni per cui si potesse arrivare alla fine del colonialismo europeo “classico”, interrogando, oltre a materiali reperibili in biblioteche e importanti archivi della resistenza democratica italiana come quello della fondazione Basso o dell’Archivio Privato di Giovanni Pirelli, anche archivi personali e privati come quello della fotografa Bruna Polimeni che ha lungamente seguito la lotta anti-coloniale in Guinea Bissau e lo stesso Amílcar Cabral. Emergono da queste pagine alcune figure importanti della lotta anti-coloniale, innanzi tutto quella dello stesso Cabral ma, ad esempio, anche quella di Agostinho Neto, primo presidente dell’Angola indipendente, che, grazie al supporto di figure vicine al Pci e alla mediazione di figure come Marcella Glisenti, riuscirono a essere ricevuti dall’allora papa Paolo VI, episodio che segnò a livello internazionale il declino del consenso della Nato nei confronti del regime portoghese. In questa storia di intrecci che portò alla realizzazione a Roma nel giugno del 1970 di una Conferenza di Solidarietà con la lotta di quei popoli africani oppressi dal regime portoghese, esiste una fitta trama popolata da figure spesso dimenticate come quella di Joyce Lussu, che tradusse alcuni poeti africani di lingua portoghese prima che la loro opera potesse circolare pubblicata in lingua originale a causa della censura, accanto a una schiera abbastanza significativa di fotoreporter, registi e giornalisti come Uliano Lucas, Augusta Conchiglia, Stefano de Stefani, Vittorio Orsini, Bruno Crimi, per citarne solo alcuni, che si spostarono al fronte, spesso su invito diretto dello stesso Cabral, che aveva ben chiaro il potere delle immagini e del racconto dei giornalisti occidentali e che portarono alla ribalta internazionale quelle guerre di liberazione di cui in Europa si parlava ancora pochissimo. Il volume cerca di tracciare anche un’ideale continuità tra la Resistenza italiana e la lettura che a sinistra veniva fatta delle lotte anticoloniali così come segue le linee della creazione di una visione terzomondista della parte più progressista del nostro paese incluso quella di certi giri cattolici militanti a cui, va detto, non sfuggiva il potenziale anche economico e commerciale del continente africano. Il libro fornisce una riflessione importante e meticolosa su quegli anni e su quelle lotte, anche grazie a generose citazioni tratte dai materiali reperiti durante il paziente lavoro di archivio, oltre a quelli presentati in appendice al volume per chi si dedica agli studi culturali del mondo che scrive in portoghese, peraltro ancora poco digeriti dall’ accademia locale. Ma il libro ci parla anche di un’Italia diversa, innanzitutto più ariosa, in cui si aveva a cuore anche quello che succedeva lontano da casa propria e in cui era ben chiaro che il destino dei popoli oppressi non poteva rimanere fuori dalla preoccupazioni di chi si dichiarava solidale in patria.